Multiutilities*
*Roberto Balzani | 30 Giugno 2014*
La stagione
delle multiutility comincia con il superamento delle antiche municipalizzate,
negli anni Novanta. Le aziende speciali, sorte con la provvida legge Giolitti
103/1903, avevano compiuto un ciclo importante (pensiamo agli acquedotti, a
inizio Novecento, e alla metanizzazione del territorio, negli anni Sessanta) ed
erano in condizioni assai diverse le une dalle altre: talune efficienti, altre
invece infiltrate dalla politica e divenute parcheggio di ceto parassitario. Con
le ovvie, immaginabili ricadute sul piano dell’efficienza gestionale e della
cultura d’impresa.
La scelta di accorpare realtà territoriali di
dimensioni limitate all’interno di strutture più vaste, dotate di grandi
possibilità di investimento sui servizi a rete e di un management di qualità,
andava nella direzione di assicurare ai Comuni (che restavano i titolari del
controllo della Spa) uno strumento potente, duttile, efficiente, sottraendolo al
“mercato politico”e alle sue degenerazioni.
La fase costitutiva delle
multiutility è stata quindi segnata dal drenaggio di risorse umane di qualità
dalla periferia amministrativa all’impresa e, contestualmente, dalla
concentrazione degli impianti. Presentata in questo modo, l’operazione non
presentava controindicazioni particolari, e infatti è stata la chiave di volta
del successo delle nuove strutture emiliano-romagnole.
Il problema è
sorto nel momento in cui Hera in primo luogo (2003), poi Enìa (nata nel 2005
dall’associazione delle municipalizzate emiliane), fondendosi con Iride e dando
vita a Iren (2010), sono state quotate in Borsa. Lì c’è stata una mutazione
prevedibile, ma radicale. Il management ha acquisito un ovvio predominio,
dovendo rispondere al capitale degli investitori privati (nel caso di Hera,
anche le Fondazioni bancarie); nello stesso tempo, i soci pubblici hanno
faticato a generare politiche proprie, anche in virtù di una specializzazione
della comunicazione e dei processi decisionali, preferendo rivestire il ruolo di
azionisti percettori di dividendi.
Questa scelta è stata determinata da
più fattori: debolezza della classe amministrativa, mutevole e spesso non
all’altezza culturalmente di un dibattito tecnico; sistematica asimmetria
informativa fra aziende e Comuni, resa più dolorosa e irrecuperabile dal
drenaggio dei tecnici pubblici migliori nelle multiutility; tendenza a
sottovalutare l’impatto delle tariffe sul consenso, in virtù di una imposizione
locale “irresponsabile”
(cioè gestita dal centro del sistema) fino alla crisi
del 2008. Infine, ma non meno importante, va segnalato il passaggio di personale
politico nei quadri di rappresentanza delle muliutility, attraverso una forma di
reclutamento indiretta che ha fatto parlare Marco Damilano di passaggio dal
modello berlusconiano del partito-azienda a quello emiliano
dell’azienda-partito.
Il tentativo RER di creare un contraltare di pari
entità (lo scioglimento degli Ato provinciali e la costituzione di Atersir),
anziché riequilibrare sul versante politico i rapporti di forza, accentuando il
côté della programmazione, delle gare e dei controlli, ha reso ancora più debole
la parte pubblica, fra l’altro ulteriormente impoverita di tecnici a causa di
una clausola di salvaguardia che ha permesso al personale comandato negli Ato di
tornare agli enti locali di provenienza. Non è chiaro se questo esito sia stato
programmato o se sia semplicemente il frutto di miopia politica. Sta di fatto
che la stagione inauguratasi nel 2012 è stata segnata dall’ulteriore difficoltà,
da parte del pubblico, di intervenire sugli indirizzi di politiche fondamentali
per la vita collettiva.
Il ritiro delle delega all’Assessora Freda (2013)
e la ricentralizzazione delle stesse sulla figura del Presidente - proprio in
coincidenza con la fase calda della discussione del piano regionale di gestione
rifiuti - è, anche dal punto di vista simbolico, la testimonianza di un ruolo di
mediazione istituzionale assunto da Vasco Errani, più che di costruttore di
policies attraverso l’apparato funzionariale e dirigenziale
dell’Assessorato.
Ma veniamo ora ad esaminare brevemente la diversità
d’impostazione delle politiche emerse in questi anni nei territori della RER.
Perché questa è la
novità: rispetto alla acquiescenza e la consueta
“riservatezza” con cui la politica (di governo) ha affrontato il tema delle
multiutility fino al 2009, ora – sulla scorta di una nuova sensibilità
dell’opinione pubblica – assistiamo ad una secolarizzazione del dibattito e ad
una maggiore trasparenza dei punti di vista.
La reazione ostile del
Sindaco di Imola all’annuncio del Comune di Forlì di votare contro il nuovo
allargamento di Hera (alle imprese friulane e
giuliane) e, in seconda
battuta, di non sottoscrivere il patto di sindacato fra i soci pubblici di Hera
alla sua naturale scadenza (31 dicembre 2014.
Come Ferrara, d’altronde),
rivela un elemento finalmente politico della vicenda regionale. Il Sindaco di
Imola incarna un’idea perfettamente logica e razionale: la sua città, tramite
una holding ben gestita, detiene attualmente il 7,4% delle azioni Hera (una
quota seconda solo a Bologna e a Modena), che produce il più alto dividendo pro
capite (Imola è una piccola città), se spalmato sui cittadini residenti del
Comune (il rapporto rispetto Forlì, tanto per fare un esempio, è di 4:1). La
strategia è
chiara: Imola ha deciso, anche in virtù di una dotazione iniziale
assai significativa d’impianti, d’investire sulla multiutility, cui ha conferito
poi anche le reti, in modo da beneficiare degli utili. Fra il profilo
dell’utente/controllore e quello dell’azionista, ha scelto il secondo. E’
poi
chiaro che un simile peso in termini di azioni fa sì che Imola sia un socio
autorevole e ascoltato, rispetto ad altri – Forlì, Ferrara, Rimini – il cui
apporto al capitale sociale viaggia fra l’1,6 e l’1,7%. Per i bilanci di queste
città, il dividendo Hera è assai più contenuto e meno strategico.
Il
punto di vista alternativo, rappresentato da Forlì in questo caso, è quello di
tenere le reti in mano pubblica (non senza un riscontro positivo sui bilanci:
vedansi i risultati di Unica Reti) e di occuparsi di gare, tariffe, servizi e
controlli: cosa assai difficile e complicata, perché Hera ha drenato dalle ex
municipalizzate personale di prim’ordine (come si diceva poco sopra). Forlì, che
rappresenta una quota relativamente modesta del capitale Hera (1,6%), ma che può
vantare, d’altronde, un portafoglio di utenti/clienti (oltre il 9%) pari a 4
volte la percentuale, ha un interesse opposto a quello di Imola: essa vede la
multiutility come erogatrice di buoni servizi possibilmente a basso costo ed è
indotta a entrare nel merito della composizione delle tariffe, per evitare che
profitti eccessivi vadano a beneficio degli azionisti maggiori (fra cui anche il
Comune di Imola).
Detto in altri termini, non tutti i soci pubblici sono
uguali: le strategie delle città hanno creato due modelli di riferimento: i
fautori della “logica azionista” e quelli della “logica utente”. Che sono alla
fine inconciliabili. Per questo, dovendo scegliere, Forlì preferirebbe una
società francamente animata da un indirizzo privatistico, dove la foglia di fico
del controllo pubblico cede il passo alla realtà così com’è: Hera è un grande
colosso capitalistico e finanziario ormai internazionalizzato, privato e insieme
pubblico, guidato da un management di indubbie qualità, nel quale le politiche
dei Comuni, salvo rari casi, hanno un peso molto modesto. I servizi che Hera
potrà erogare saranno sempre più legati ad un ovvio parametro di profitto
atteso, con l’inevitabile conseguenza che interi pezzi di sistema locale
rischiano di essere progressivamente abbandonati. E’ già successo in altri
settori.
Il pubblico dovrebbe invece restare titolare delle reti e
dovrebbe gestire – possibilmente in house – quei servizi pubblici per i quali la
scala territoriale risulti conveniente e la copertura dei costi attraverso
tariffa sia assicurata: per tutti gli altri, sarà il mercato – ed Hera, così
come Iren, è di certo un soggetto altamente attrezzato in questo senso – a
definire successi e insuccessi delle imprese. Ciò implica, quindi, la
riappropriazione di un potere d’indirizzo comunale sulle politiche – pensiamo
all’acqua o alla raccolta dei rifiuti, giusto per fare un esempio
-: e tanto
più oggi, quando i cittadini vedono che sono i Comuni a determinare la
tassazione su questi servizi e pretenderebbero correttamente perciò, con il
voto, di orientarne le scelte. Ciò implica, inoltre, una netta separazione fra
le funzioni: proprietà delle reti, gare e controllo, da un lato (oltre alla
gestione diretta dei servizi esercitabili in regime di monopolio su una scala
territoriale circoscritta); competizione fra imprese, multiutility o meno, per i
servizi a mercato o ad alta intensità di capitale (e perciò fuori dalla sfera
comunale o inter-comunale).
Siamo di fronte a due modelli assai diversi:
nell’un caso le politiche passano attraverso la multiutility a partecipazione
pubblica, che le interpreta e le declina; nell’altro, la multiutility è un mero
strumento, e le politiche restano, in parte almeno, più prossime all’ente in
capo al quale è la rappresentanza civica e collettiva diretta.
Direi che
si tratta di un tema complesso, ma di grande interesse. Anche perché ci sono
altri attori in gioco: la Regione, che ha concentrato su di sé talune funzioni
essenziali, lo Stato con le sue “liberalizzazioni”, vere o presunte, l’Europa
con i suoi indirizzi. Ecco, credo che questa sia politica in senso puro:
diritti, beni
comuni, servizi, tariffe, imprese, rappresentanza,
controllo, tutti fusi insieme. E poiché è politica allo stato puro, ritengo che
anche su questo terreno debba essere giocata la gara per la Regione prossima
ventura, nel 2015.
Una posizione chiara e condivisibile dal mio modesto parere che proporrò di adottare al prossimo direttivo regionale del PSI
Andrea Pancaldi
Consigliere naz. del PSI